Ieri sera, alle 18:00, presso il
Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci a
Milano è stata presentata alla stampa e ad alcuni ospiti la nuova mostra ospitata dal museo stesso,
Emporium. A New Common Sense of Space, che è stata aperta al pubblico proprio
questa mattina e che potrà essere visitata fino all'
8 dicembre.
La mostra, realizzata con il patrocinio dei consolati di Cina, Corea, Giappone, è curata da
Beatrice Leanza, che lavora ormai da anni in Oriente (si è sentito dall'accento particolare che ha assunto il suo italiano durante la fase iniziale della presentazione, alla quale è intervenuto anche
Giuliano Urbani, presidente del Museo) e che ha raccolto le opere degli artisti orientali raccolti nella mostra.
E qui il primo problema, o perplessità, sulla mostra stessa: perché ospitarla al Museo
Leonardo da Vinci, simbolo per eccellenza non solo di Leonardo, ma anche della scienza e della tecnica? Il motivo più ovvio, che nessuno cita forse per la sua ovvietà, sta proprio nella figura di
Leonardo, che come abbiamo già visto è stata omaggiata grazie al progetto sul
Cantiere del Duomo: un artista e un ingegnere, una figura che assomma in se alcune delle caratteristiche tipiche degli scienziati veri e propri, applicandole poi al mondo dell'arte. C'era forse altro da aggiungere?
In effetti sembrano soprattutto i soliti motivi, promozione dell'
Expo 2015 e consolidamento dei rapporti con i paesi orientali i principali motivi per portare in Italia questo allestimento, che si concluderà in prossimità della locale festa di Sant'Ambrogio. La conferenza in se, comunque, è decisamente molto breve, questo per consentire a giornalisti e ospiti di esplorare nel modo migliore possibile la mostra, toccando così con mano perché debba essere ospitata dal Museo
Leonardo da Vinci.
E vediamo che cosa si trova il visitatore all'interno della sala dedicata agli artisti orientiali.
Entrando nella sala, la prima cosa che colpisce è il manichino steso su un piano di legno, una figura decisamente futuristica, quello che definisco un uomo aspirapolvere, non certo per sminuire il valore artistico dell'opera, quanto per esaltarne la capacità di sintetizzare paure e ansie tipiche della fantascienza di miglior fattura. Leggo sul catalogo che ci è stato fornito all'ingresso, che l'uomo aspirapolvere,
Big Mistake-Headturner, nasce da un'idea di
Kimura Taiyo, che spero di non aver frainteso (nel qual caso spero mi vorrà perdonare).
Subito dopo si viene colpiti dall'unica opera propriamente detta, che
Liang Shuo, che presta al museo due opere, chiama provocatoriamente
I'm fucking beautiful N.1: è una vera e propria statuta che combina una serie di simboli uno con l'altro, con intorno una serie di lampadine, quasi un modo per recuperare la vecchia tradizione di dipingere le statue, sostituendola in questo caso con l'illuminazione delle luci colorate (che non sono
quelle di
Subsonica e Bluvertigo).
A quel punto, dietro questo primo trittico, ecco
Local Listening, se non erro, di
Yan Jun, una serie di cuffie che calano dall'alto e nelle quali vengono inviati suoni e voci dalla Pechino che lavora, ecco l'allestimento migliore, decisamente il mio preferito:
Appear and Desappear di
Ahn Doojin, una variazione su
Covert party of Makom e
Where the wind is remembered, entrambe del 2008. L'artista realizza una visione di una città futuristica e colorata, ma utilizzando oggetti del vivere quotidiano, come cannucce, fiammiferi, scatole opportunamente sagomate e ritagliate. La visione d'insieme, per architettura e colori, richiama lo scomparso
Seth Fisher,
cartoonist statunitense che trascorse buona parte della sua vita proprio in Asia, in Giappone in particolare, dove una mattina decise di provare a volare da un grattacielo, lasciandoci oggi ad ammirarlo soltanto alcune, poche storie magistralmente illustrate.
Senza però tediarvi troppo con altre considerazioni da dilettante dell'arte (sono un semplice fisico, purtroppo), vorrei soffermarmi ancora su un paio di aspetti interessanti, anche se prima di tutto vorrei provare a scrivere un paio di
considerazioni generali: tutto sommato, nonostante la scarsa interattività (una sola opera è, letteralmente, scalabile: vedrete scorrendo la galleria - il suo titolo dovrebbe essere
Moon Shadow),
la mostra è comunque gradevole e divertente, sia grazie all'uomo morto che striscia per la sala (in realtà è
Hashimoto Satoshi che si esibisce in
One dozen, stando al catalogo), sia grazie alla particolarità delle opere e grazie anche ai video sparsi un po' ovunque, dimosrando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che si può fare arte anche attraverso le immagini in
movimento.
In questo senso risulta particolarmente inefficace
Paris Syndrome di
Yang Jun, almeno per come è stato gestito lo spazio dedicato all'opera: le piante che dovrebbero circondare lo schermo sono, invece,
defilate, quasi un modo per separare i concetti della città e del ritorno alla natura, che sono lo spirito dell'ideazione (almeno osservando la foto nel catalogo). In effetti, se da una parte abbiamo la dimostrazione che
l'arte può essere fatta con oggetti semplici, come ad esempio delle piante in un vaso, dall'altra l'intera mostra sembra
raccontare un modo nuovo per vivere, un modo decisamente più sostenibile, anche solo semplicemente con una differente sistemazione degli spazi (come suggerisce il titolo della mostra).
Questo concetto viene, in effetti, sintetizzato meravigliosamente da
Niwa Yotaro in
Untitled, versione ridotta di
Ocean, Light Source and...: piante sospese in aria in posizione orizzontale o obbliqua, sono collegate, con dei tubi, verso il basso con un acquario, con all'interno un pesce vero, probabilmente per simbolizzare l'origine della vita, e verso l'alto con pezzi di sedie, quasi a voler indicare la fiducia (o la speranza) dell'artista nella vittoria della natura sull'uomo. Visto che sia il pesce (povero pesce, anche se fa bella mostra di sé il mangime proprio lì sull'acquario), sia le piante (povere piante) sono veri, l'unica nota positiva dell'allestimento è solo il suo significato simbolico, che poteva essere ottenuto in maniera altrettanto efficace con un quadro o un bassorilievo classico.
Alla fine, comunque, potrete star certi che con
Art Attack si fa arte e che anche i mobili antichi che sono nelle nostre case o in quelle dei nostri nonni, sono da considerarsi arte moderna: vedere lo stipetto portato per l'occasione da
Qiu Xiaofei per credere.
Dimenticavo: il pannello che indica l'uscita non è un'opera d'arte moderna, a meno di non considerarla tale perché l'ho fotografato!
Per tutti gli scatti fatti alla presentazione
vi rimando all'album Google Photo
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