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mercoledì 11 agosto 2010

Sulla piana di Maratona

Fu Ipparco la rovina di Ippia, erede di Pisistrato sul tirannico soglio ateniese: il giovane, infatti, mise gli occhi su Armodio, bel ragazzo amante dell'aristocratico Aristogitone (non dimentichiamo che a quel tempo, per i greci, uomo o donna pari erano). A questo punto la passione d'amore si mescola con la politica: da un lato Ipparco, rifiutato da Armodio, accusò la sorella di quest'ultimo di non essere vergine, escludendola dalle feste Panatenee, dall'altra Aristogitone e Armodio decisero di vendicarsi di Ipparco progettando un attentato ai danni non solo di quest'ultimo, ma anche del fratello tiranno Ippia. Il giorno stabilito per l'attentato, però, l'unico a morire, purtroppo per la città, fu Ipparco.
Lo scampato pericolo fece al tempo stesso impaurire e arrabbiare Ippia, che iniziò a usare metodi dispotici e tirannici, nel senso moderno del termine: così la città, quando non ne poté più di Ippia, si ribellò, costringendo il figlio superstite di Pisistrato in fuga, mentre in patria il potere venne messo nelle mani di Clistene, capo della rivolta, che però riuscì ad esercitarlo solo dopo quattro anni dalla cacciata del tiranno, a causa dei giochi di potere di Isagora, che aveva contribuito con Clistene alla cacciata del tiranno.
D'altra parte Clistene non era poi così diverso da Pisistrato: una volta preso il potere portò, ad esempio, a compimento la riforma agraria iniziata dal primo tiranno democratico di Atene. La novità più importante che introdusse, però, fu l'ostracismo: con questo meccanismo un qualunque cittadino accusato di essere pericoloso per lo stato poteva essere mandato in esilio, a patto di ricevere 3000 voti contrari. E il primo a venire ostracizzato fu proprio Clistene: l'irriconoscenza dei suoi concittadini deve probabilmente essere spiegata con il non voler rischiare un nuovo concentramento di poteri su un unica persona.
Entrano in scena i persiani
Nel frattempo Ippia, scacciato dalla sua città, pensando esclusivamente alla vendetta, si era andato a rifugiare alla corte di Dario. Il re persiano era interessato ad allargare i confini del proprio regno, ispirato dall'unico pensiero che un impero in pace e tranquillo è un impero che allarga i propri confini ai vicini. In effetti la Persia si stava avvicinando alla Grecia, dopo le conquiste della Lidia e di Mileto. I ribelli di queste due città, rappresentate da Aristagora, cercarono aiuto presso Sparta, che, come al solito fedele al suo autarchico isolazionismo, negò qualsiasi contributo militare, mentre Atene, con grande gioia di Ippia, accettò e mosse guerra contro l'invasore.
L'ex-tiranno ateniese, in effetti, fin da quando era giunto alla corte di Dario, aveva cercato di convincere il sovrano persiano a muovere guerra contro la sua città natale. Scoppia così la prima guerra persiana.
A fianco di Atene si schierò la sola, piccola Platea, mentre Dario poteva contare su un esercito piuttosto numeroso. Tra i generali che guidavano l'esercito ateniese, però, c'era uno stratega di grande intelligenza, Milziade, che fremeva per prenderne il comando completo. Con lo stesso spirito con cui i cittadini esercitavano a turno il potere nella polis, anche nell'esercito i generali si alternavano nella gestione delle operazioni militari: questo limitava non poco Milziade nelle sue ambizioni.
Si giunse così all'alba della battaglia decisiva nella piana di Maratona, quella da cui partì l'impresa di Fedippede che giunse spompato fino ad Atene per comunicare la vittoria dell'esercito ateniese su quello persiano.
Infatti quel giorno l'esercito, guidato con maestria da Milziade che aveva ricevuto il comando da Aristide (che evidentemente come stratega non si sentiva all'altezza), semplicemente sbaragliò l'esercito persiano nonostante il numero di effettivi fosse a favore di quest'ultimo. Il condottiero greco sfruttò il difetto più importante dell'esercito avversario: la mancanza di disciplina.
E mentre l'esercito ateniese, ormai vincitore, tornava a casa, gli spartani giunsero, ormai a cose fatte, sulla piana di Maratona: un tempismo perfetto!
Melziade tornò ad Atene da vincitore, e certo avrebbe preteso molto più del pagamento che ottenne se la morte non lo colse improvvisa. Agli ateniesi rimase allora Aristide, uomo probo e giusto e per questo ben visto dalla cittadinanza, almeno fino alle elezioni e all'avvento di Temistocle, oratore brillante e politico senza scrupoli, ma anche fine stratega come si vedrà in seguito.
La vittoria, come intuibile, andò proprio a quest'ultimo, che chiese, non senza una certa assenza di eleganza, l'ostracismo per il suo avversario. A tal proposito si narra che questi, non riconosciuto da un analfabeta che gli chiedeva di scrivere il suo nome sulla tavoletta, ne chiese il perché. Questa la risposta che ottenne:
Non mi ha fatto nulla, ma non ne posso più di sentirlo chiamare il Giusto. Mi ha rotto le scatole, con la sua giustizia!
Commenta allora Indro Montanelli:
Aristide sorrise di tanto rancore, tipico della mediocrità contro l'eccellenza, e scrisse il voto di quell'uomo contro di lui.
Alla fine Aristide venne ostracizzato, mentre Temistocle restava a capo della città, giusto in tempo per la seconda, grande invasione persiana, questa volta guidata da Serse, figlio di Dario.

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