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mercoledì 25 agosto 2010

Come fu che Archimede incendiò le navi romane

Una delle figure più fulgide nel panorama della scienza antica fu sicuramente Archimede. Nato a Siracusa, era distratto e svagato, come quasi tutti gli scienziati, come scrive Montanelli. A conferma di ciò giova ricorcdare l'episodio della vasca, quando Archimede, immerso nell'acqua, ebbe l'intuizione per risolvere il dilemma propostogli dal suo sovrano, Gerone. Capito il principio che sta alla base della ben nota spinta di Archimede, lo scienziato siracusano corse fuori dalla vasca urlando Eureka! Eureka! dimentico persino di vestirsi: è semplicemente l'essenza del piacere della scoperta.
Morto Gerone, però, il suo successore decise che era tempo di affrancarsi, come era successo con la Grecia a suo tempo, e anzi di sfidare la potenza di Roma. La flotta dei latini, guidata da Marcello, assediò Siracusa per 8 mesi e più, fino a che non riuscì a vincere la resistenza dell'inespugnabile cittadina siciliana. I soldati romani sciamarono, così, per le strade della città, con l'ordine, però, di non toccare Archimede e anzi di trarlo prigioniero con tutti i riguardi. Il buon scienziato, ormai intorno alla settantina, era però sulla spiaggia a tracciare cerchi e figure geometriche quando un armigero gli si avvicina invitandolo a seguirlo. Di fronte al rifiuto (doveva prima concludere ciò che aveva iniziato), il romano lo uccise e così finì la sua vita il personaggio più geniale dell'antichità, l'artefice di una così lunga resistenza contro quello che stava per diventare l'esercito più forte di tutti i tempi.
Le macchine che Archimede ideò erano varie e disparate e tra queste, secondo la leggenda, ci sono i così detti specchi ustori, con i quali incendiava le navi romane che si avvicinavano alla costa. Durante la conferenza dedicata ad Archimede, The Genius of Archimedes - 23 centuries of influence on mathematics, tenutasi a Siracusa dall'8 al 10 giugno 2010, Cesare Rossi della Federico II ha proposto una idea alternativa a quella leggendaria, la cui inefficienza era stata provata già da tempo: Archimede utilizzò un cannone a vapore. Le sue idee sono state da poco pubblicate negli atti del congresso in un articolo dal titolo Archimedes' cannons against the roman fleet?
Storicamente l'attacco e l'assedio dei romani contro Siracusa si colloca tra il 214 e il 212 a.C.: come leggenda vuole, Archimede bruciò le navi nemiche grazie all'uso di una serie di specchi ustori. L'ingegnere greco Joannis Stakas aveva già provato un sistema di questo genere nel 1974, sistema che poi verrà utilizzato per riscaldare i liquidi in dispositivi diffusi nei paesi in via di sviluppo.
Nonostante la prova sul campo, però, sono state molte le perplessità circa l'efficacia del sistema come arma (di difesa o offesa che sia): innanzitutto la nave, per incendiarsi, deve trovarsi nel fuoco dello specchio, e quindi o si sposta continuamente lo specchio stesso o si cambia la sua curvatura in modo tale da seguire i movimenti della nave, che certo non ha nessuna intenzione di restare ferma a farsi bruciare. Inoltre per bruciare una nave occorrono grandi quantità di energia, e molto probabilmente bastava un secchio d'acqua per spegnere le prime fiammelle e quindi scongiurare il pericolo.
Tra le carte di Leonardo da Vinci, però, si trova un particolare disegno, lo schema di un cannone a vapore che egli attribuì ad Archimede e che chiamò architronito (o tuono di Archimede):
Architronito è una macchina di fine rame, invenzione di Archimede, e gitta ballotte di ferro con grande strepito e furore. E sasi in questo modo. La terza parte dello strumento istà in fra gran quantità di foco di carboni, e quando sarà bene da quelle infocata, serra la vite, d, ch'è sopra al vaso dell'acqua abc; e nel serrare di sopra la vite e' si distopperà di sotto, e tutta l'acqua discenderà nella parte infocata dello strumento, e lì subito si convertirà in tanto fumo che parirà maraviglia, e massime a vedere la furia e sentire lo strepido.
Questa cacciava una ballotta, che pesava un talento (una palla del peso tra i 26 e i 38 kg), sei stadi (una gittata di 1100 m).
Fa che 'l ferro cn sia pontato in mezzo la tavola, che gli è appiccata di sotto, a ciò che l'acqua possa in un tempo cadere d'intorno a essa asse.
(da Ms. B, f. 33 v.)
Prima di Leonardo, però, è Petrarca che nel De Remediis Utriusque Fortunae descrive un dispositivo simile, assegnandolo anch'esso al genio del siracusano:
Straordinario, se non anche le palle di bronzo, che vengono scagliate con tuono orribile. Non era abbastanza l'ira di Giove che tuonava dal cielo, se il piccolo uomo (o crudeltà unita alla superbia) non avesse tuonato anche dalla terra: la violenza umana ha imitato il non imitabile fulmine, come dice Virgilio. E quello che di solito è scagliato dalle nuvole, e mandato con uno strumento sì di fuoco, ma infernale. Ed alcuni ritengono che questo sia stato inventato da Archimede, nel tempo in cui Marcello assediava Siracusa. Per la verità lo escogitò per difendere la libertà dei suoi cittadini, sia per allontanare sia per differire la rovine della patria; e voi vene servite, invece, per opprimere i popoli liberi o col giogo o con la distruzione. Questa peste non molto tempo fa rara, ora siccome gli animi sono succubi alle cose più malvagie, è comune come qualsiasi genere di armi.
Ulteriore testimonianza, questa di prima mano, viene dallo storico greco Plutarco che nel suo Vite parallele, vol.II, Pelopida e Marcello 14-15, racconta che, durante l'assedio di Siracusa, i romani ad un certo punto videro spuntare un tubo e subito dopo Archimede stava iniziando a sparare qualcosa contro di noi.
Dalle ricerche di Simms, poi, sembra che il matematico Tartaglia scrisse che Valturio, ingegnere e letterato italiano, nel suo trattato De re militari, asseriva che Archimede aveva progettato un dispositivo in grado di sparare pietre grandi e pesanti.

martedì 24 agosto 2010

Che cos'è la vita?


Titolo: Che cos'è la vita?
Autore: Erwin Schrodinger
Edizione: Adelphi
Mentre Antonino Zichichi è impegnato a parlar male della teoria di Darwin (che ritiene di un livello inferiore anche rispetto alla teoria del Big Bang), sono molti i fisici che si interessano alla biologia, alla vita e all'evoluzione. Questo particolare filone di ricerca, che si posiziona tra le discipline di fisica, biologia e genetica vede come iniziatore un personaggio al di sopra di ogni sospetto, Premio Nobel per la fisica nel 1933 e scopritore di un'equazione che, come in moltissimi casi, porta il suo nome: Erwin Schrodinger. Suo degno erede su questa strada è un altro fisico, anch'egli Nobel, questa volta in medicina nel 1962, per una scoperta fatta nel 1953: stiamo parlando di Francis Crick e della scoperta della struttura a doppia elica del DNA insieme a James Watson e Maurice Wilkins(1).
Il libro di Schrodinger, Che cos'è la vita?, basato su una lezione tenuta sullo stesso argomento nel 1943 al Trinity di Dublino, fornisce quello che si potrebbe dire come il punto di partenza per la fisica dell'evoluzione e della vita, un libro che è stato di ispirazione per gli stessi Crick, Watson e Wilkins. Nel testo Scrodinger parte dalla fisica classica per addentrarsi via via sempre in maggiore profondità nell'argomento, utilizzando ben poche equazioni matematiche, ma con un discorso semplice, basato sulla statistica, sugli esempi e sui concetti di base della meccanica quantistica.

Erwin Schrodinger
Affrontando l'ereditarietà, la prima cosa che Schrodinger fa è rigettare come errate le conclusioni del fisico classico, passaggio essenziale per far emergere la natura quantistica nei meccanismi che il fisico vuole approfondire. La bellezza di questo capitolo, però, sta nella precisione e semplicità con cui un fisico è in grado di parlare di concetti come cromosomi, mitosi, meiosi che stanno alla base del meccanismo dell'ereditarietà. Tutto questo, con il supporto di immagini esplicative, è utile per l'introduzione ai geni e al capitolo successivo, quello dedicato alle mutazioni.
Le mutazioni sono, secondo Schrodinger, la base della teoria di Darwin e l'unico elemnto che va introdotto per aggiornare la sua teoria:
D'altra parte, a causa della loro ereditarietà, le mutazioni sono il terreno adatto su cui può lavorare la selezione naturale e produrre le specie nel modo descritto da Darwin, coll'eliminare gli inetti e lasciar sopravvivere i più adatti. Non si ha che da sostituire nella teoria di Darwin la parola mutazioni alle parole piccole variazioni accidentali (esattamente come nella teoria dei quanti, ai processi continui di cessione dell'energia, sostituisce i salti quantici). Per il resto, ben pochi cambiamenti è necessario apportare alla teoria di Darwin, che è, se io ho ben capito, il punto di vista accettato dalla maggior parte dei bilogi.
L'esame statistico ad esempio delle coltivazioni d'orzo sono il punto di partenza di un capitolo estremamente interessante, dove ad esempio viene ricordato come fondamentale il contributo alla teoria dato da Mendel, abate agostiniano.

sabato 21 agosto 2010

La matematica in gioco: Senza parole (o quasi)

L'immagine qui sopra viene da una dimostrazione senza parole proposta da Roberto Zanasi (a tal propostio, non dimenticate di passare dal Carnevale della Matematica #28: edizione agostana, ma non per questo meno bella!). L'idea è quella di dimostrare la formula seguente: \[1+2+\cdots+(n-1) = {n \choose 2}\] o come preferisco io: \[1+2+\cdots+(n-1)+n = {n+1 \choose 2}\] Può essere dimostrata con un paio di semplici calcoli, ricordandosi, ad esempio, degli amati numeri triangolari.

venerdì 13 agosto 2010

Storia dei greci


Titolo: Storia dei greci
Autore: Indro Montanelli
Edizione: BUR
A conclusione del trittico di post sulle guere tra le cità-stato greche, Atene in testa, e l'impero di Persia ecco una recensione del testo che ne è stato la fonte principale: Storia dei greci di Indro Montanelli.
Libro interessante, scritto con una prosa colloquiale e ironica, si concentra sui personaggi, perché la storia della Grecia antica è soprattutto la storia dei suoi personaggi: guerrieri, politici, filosofi, scienziati. E' anche una fetta della storia d'Italia, con le sue colonie, note come Magna Grecia: Crotone, Siracusa, Trapani, e molte altre. Ed è una storia divisa in quattro parti: il mito e la leggenda, che si mescolano con i fatti storici. Tra nomi e personaggi effettivamente esistiti, in leggende come il sacco di Troia, si innestano dati e personaggi storici reali, e omaggi a folli come Enrico Schliemann, il tedesco che voleva essere greco e che scoprì i resti della mitica città governata da Priamo. Città cantata da Omero, tra gli altri, poeta cortigiano, poeta dei ricchi, ricordato anch'egli in questa prima parte.
Omero era un poeta di corte, che lavorava su ordinazione di principi e principesse, clienti d'alto rango che esigevano prodotti confezionati sulla loro misura aristocratica e sul loro gusto togato, e non potevano commuoversi che alle sorti di eroi simili a loro, splendidi, cavallereschi e vincibili soltanto dal Fato.
E la Grecia di questo primo periodo è una nazione, che non è ancora nazione e mai lo sarà, invasa da popoli che dall'esterno si innestano sugli indigeni, cercano di fondersi con loro (gli achei) o di ridurli in schiavitù (i dori). Da queste fusioni e da questi conflitti nasce la storia accertata, quella delle origini, quella della polis, di Solone, delle colonie greche, nate prima per caso e poi per necessità demografiche. Città che dovevano alle polis d'origine la cultura, l'impostazione democratica, vizi e virtù, città che diedero un forte impulso anche alla cultura della stessa Grecia. In quel periodo, in effetti, anche l'Italia meridionale poteva e doveva essere chiamata Grecia, tanto era forte il legame d'origine con le città di provenienza dei primi coloni.
Finiva tutto lì, però, quel legame, e d'altra parte è assolutamente normale: le stesse città greche erano spesso e volentieri in battaglia tra loro, sempre troppo individualiste per mettersi insieme in una coalizione, se non sotto la spinta di un pericolo esterno, ma nemmeno tanto spesso, o per rivoltarsi contro un sovrano finalmente riuscito nell'improba impresa. E' in questa fase, caratterizzata soprattutto dalle guerre ai persiani di Dario e Serse, guerre la cui conclusione ha di fatto sancito il primato economico e culturale di Atene sul resto della Grecia, Sparta inclusa, che si pongono le basi per l'età dell'oro, l'età di Pericle.
Da Pericle ad Alessandro
Pericle, grazie alle sue qualità di buon amministratore, venne eletto dai suoi cittadini per 40 anni di seguito o poco più, in maniera ininterrotta. Grazie alla sua spinta Atene fiorì: dopo la conclusione delle mura di cinta, progetto iniziato da Temistocle, ma che questi dovette abbandonare a causa delle accuse di tradimento, gestì le finanze della città riuscendo non solo a rimpinguare le casse, ma anche a sviluppare l'edilizia pubblica e a rinforzare i commerci. Atene fu tanto grande grazie a Pericle e la sua crescita fu così rapida, che al cadere di questi, distrutto dai suoi stessi concittadini che non gli diedero più il loro appoggio dopo l'ennesimo processo intentato contro i suoi più stretti amici (l'ultimo contro la sua amante, la cui posizione mai volle regolarizzare), la caduta di Atene e con essa della Grecia fu rapida e non priva di dolore.
Il sogno di una Grecia unita durò solo lo spazio di un mattino, mi verrebbe da scrivere, per un periodo di appena 11 anni sotto Alessandro Magno, il folle re macedone: e non poteva essere altrimenti, con una madre come Olimpia, che ha fatto credere ad Alessandro di essere figlio di una divinità egizia scesa sulla terra sotto forma di serpente, e con un padre come Filippo, uomo senza dubbi e paure se non di fronte alla moglie (forse anche il motivo per cui, col passare degli anni, decise di giacere con altre donne disdegnando le belle grazie della consorte). Il sogno di avventura, un sogno in cui identificava se stesso come Achille, mitico eroe della guerra di Troia, durò appena 11 anni e spinse la Grecia fino all'Oriente, fino all'India: la strada dunque era aperta, una strada di commerci che venne battuta indipendentemente dal destino politico e militare dell'impero di Alessandro, in veloce disfacimento.
In tutto questo una società che aveva avuto Socrate, Fidia, Pitagora, Platone e molti altri come spina dorsale culturale (quasi tutti anche abili guerrieri), vide al contrario la sua cultura dare dei frutti preziosi proprio nel finale della vita politica della Grecia. Con Platone ancora protagonista, personaggio di passaggio tra l'età di Pericle, dove era allievo di Socrate, a quella del declino, dove era maestro di Aristotele, vide la scienza fiorire in maniera incredibile (almeno rispetto alle scoperte delle epoche precedenti): simbolo di questo colpo di coda scientifico è Archimede, forse uno dei più grandi personaggi di tutti i tempi, da quel che si racconta il perfetto prototipo dello scienziato.
E' indicativo, come sottolinea Montanelli, come questa società, caratterizzata da un dilettantismo diffuso e che in questo trovò forza per sopravvivere e al tempo stesso debolezza per unirsi, con l'avvento dell'era del declino, coincisa con il massimo della sua espansione, la specializzazione dei mestieri era spinta al massimo possibile. Mentre prima il cittadino si doveva intendere di un po' di tutto, essendo obbligato a partecipare alla vita pubblica della polis (prima o poi chiunque, al di là delle cariche rappresentative, sarebbe finito in un posto di responsabilità), con lo sviluppo delle arti, della cultura, della scienza (non dimentichiamo in questo caso anche il fondamentale contributo di Ippocrate, che praticamente dal nulla riuscì a dare i primi rudimenti di medicina, seppure non tutti di buona fattura) e soprattutto dei commerci e delle guerre era necessaria sempre più una maggiore specializzazione per poter sopravvivere in battaglia e ottenere i prezzi migliori durante le transazioni economiche. E' per questo che le conquiste di Alessandro, anche se prolungate nel tempo con un sovrano un po' più sano di mente, avrebbero semplicemente ritardato l'inevitabile declino di una civiltà che fondò l'Occidente ma che guardava di più a Oriente, una civiltà che venne conquistata dalla potenza militare di Roma, ma che alla fine dei conti conquistò l'anima stessa (o almeno parte di essa) dei romani.
Due parole sulla religione
Vorrei, comunque, chiudere con alcune citazioni, tratte dal libro di Montanelli, che ben sintetizzano il rapporto dei greci con la religione:
Diogene, che aveva la lingua lunga, disse che la religione greca era quella cosa per cui un ladro che sapeva bene l'Avemaria e il Paternoster era sicuro di potersela cavar meglio, nell'al di là di un galantuomo che li aveva dimenticati.
Il Pantheon dei greci, che ha subito un aggiornamento dai miti originali, quelli di Crono e Rea, grazie all'influenza della mitologia achea, nordica rispetto a quella originale (e questo forse spiega le somiglianze con i miti asgardiani), era, poi, decisamente molto esteso. Infatti:
Gli stessi greci non riuscirono mai a mettere ordine e a stabilire una gerarchia fra i loro patroni, in nome dei quali anzi combatterono molte guerre tra loro, ognuno reclamando la superiorità di quello suo.
E quindi ecco evidente come le così dette guerre sante siano un male che assedia l'umanità sin dagli albori della civiltà.
D'altra parte, sempre secondo Montanelli è proprio la religione una delle chiavi della sconfitta greca di fronte ai romani:
(...) quando gli dei furono distrutti dalla filosofia, i greci, non sapendo più per chi morire, smisero di combattere e si lasciarono soggiogare dai romani, che agli dei ci credevano ancora.

giovedì 12 agosto 2010

Una lega di straordinari gentiluomini


Foto di Benjamin Couprie, Institut International de Physique de Solvay, 1927
Marco Delmastro ha proposto un concorso per vincere il pop-book di Atlas. La foto è stata scattata durante la Solvay Conference on Physics del 1927, probabilmente la più famosa tra tutte le conferenze della serie, e il consesso di fisici qui immortalato è stato definito come A league of extraordinary gentlemen da Matthew Rodriguez riprendendo il fumetto di successo di Alan Moore e Kevin O'Neil (vedi anche questo articolo di Ettore Gabrielli). Il juLio's blog, che la definisce come la fotografia più famosa della scienza, fornisce anche il link a una versione ad alta risoluzione, con tanto di nomi che identificano ciascuno dei fisici.
La Solvay Conference è stata istituita nel 1911 da Ernest Solvay in quel di Bruxelles (vedi una copia della lettera inviata da Solvay a Poincaré) ed è la prima conferenza sulla fisica mai istituita.
La prima edizione ebbe come tema The theory of radiation and quanta mentre, come per le quattro successive, il chairman fu Hendrik Lorentz. La più famosa in assoluto, invece, fu la quinta edizione, quella del 1927, cui si riferisce la foto, a tema Electrons and photons. La sua fama è dovuta alla diatriba tra Albert Einstein e Niels Bohr.
E' cosa abbastanza nota che Einstein non vedesse di buon occhio la meccanica quantistica, e per sminuirne il valore pronunciò, riferendosi in particolare al principio di indeterminazione di Heisenberg, la famosa frase:
God does not play dice(1)
Cui fece seguito la piccata risposta di Bohr:
Einstein, stop telling God what to do(2)
Mentre Einstein, dunque, non riusciva ad accettare la natura stocastica delle leggi fondamentali del mondo microscopico, Bohr lo richiamò, con forza, a un precetto fondamentale della scienza: attenersi ai risultati e alle migliori spiegazioni possibili di quegli stessi risultati.
P.S.: Su gaussianos ci sono ulteriori informazioni sulla conferenza del 1927, in spagnolo, mentre i link ai blog non italiani presenti in questo post sono stati ricavati con una ricerca su TinEye.
(1) Dio non gioca a dadi
(2) Einstein, smettila di dire cosa Dio farebbe

La battaglia delle Termopili

E finalmente arriviamo alla famosa battaglia delle Termopili, ispirazione per questa serie di post oltre che evento storico tramandato dagli storici come fondamentale non solo per la seconda guerra contro i persiani, ma anche per il destino del mondo occidentale tutto. Molti storici e molti autori (buon ultimo Frank Miller nel fumetto, e poi nel film 300) attribuiscono agli spartani la consapevolezza di stare difendendo la libertà, la democrazia e i valori dell'Occidente contro l'Oriente: la verità è, probabilmente, molto più prosaica di questa. Stavano semplicemente cercando di sopravvivere e di non soccombere di fronte a un pesce più grande. O per essere ancora più cinici, stavano semplicemente cercando di difendere i propri affari, la propria economia e più in generale i propri valori.
Torniamo, però alla battaglia: si diceva che, nonostante la sconfitta dell'esercito spartano nella gola delle Termopili, è questa la battaglia e l'atto eroico che viene esaltato, al punto che Erodoto deve tramandare un tradimento ai danni di Leonida e dei suoi per giustificarne la sconfitta, un tradimento che ha guidato parte dell'esercito persiano lungo un viottolo che sbucava alle spalle dell'esercito difensore. Senza questo tradimento, suggrisce Erodoto, gli spartani non sarebbero stati sconfitti. Difficile a credersi, viste anche le proporzioni tra i due eserciti e nonostante la migliore posizione geografica degli spartani: da una parte 300 tra gli spartani più esperti ed anziani (perché i giovani dovevano restare a far da seme a casa, scrive Montanelli), più alcune migliaia di soldati provenienti da altre città greche, arrivando a un totale tra i 6000 e i 7000. L'esercito persiano, invece, veniva stimato dalle 250000 unità in su: proporzioni che, se vere, non lasciavano in ogni caso scampo all'esercito di Leonida e soci, indipendentemente dal tradimento.
Il sacrificio di questo contingente militare, però, si dice fu utile alle altre città per potersi organizzare e respingere l'arrivo di Serse: in realtà, a parte Atene e la solita Platea, le altre città erano impegnate nei giochi olimpici, quindi non si poteva assolutamente guerreggiare, nemmeno con un nemico esterno. E non pensiate che sia amore per la pace, ma è semplicemente passione sportiva, di quella che le risse te le fa portare dal campo di battaglia agli spiazzi intorno allo stadio. E' evidente, a questo punto, come ci fosse una divisione dei compiti tra le due rivali (per l'occasione più o meno alleate): a Sparta le operazioni di terra, ad Atene quelle di mare.
La sfida terrestre venne vinta dai persiani, nonostante l'ottima posizione geografica scelta da Leonida per dare scacco all'esercito invasore: in fondo la scelta di un contingente piccolo si rivelò controproducente. Immagino, però, a questo punto che direte: c'erano i giochi politici, le corruzioni, che impedirono a Leonida di portare un esercito più grosso. Niente di più sbagliato: la società spartana, per sua stessa costruzione, era impenetrabile alla corruzione politica. Licurgo, il fondatore dorico della città, posta su una altura inespugnabile, pose a comando di Sparta ben due re, ognuno intento a controllare l'altro. La società poi era estremamente militarizzata: l'unica occupazione di ogni spartano era l'attività militare. Nel caso di Sparta, infatti, soldati è sinonimo di spartani. Certamente molte le storture e gli eccessi di una società che bandiva il lusso e le ricchezze, che proponeva una vita frugale e che metteva a morte i suoi stessi figli se storpi o malati. Di buono c'era la condizione della donna: non solo era rispettata e aveva maggiore libertà di movimento rispetto alle altre città greche, ma poteva anche tradire il marito per un uomo più alto e forte. Per cui con una scelta diversa probabilmente la storia sarebbe cambiata in favore di Sparta.

mercoledì 11 agosto 2010

Sulla piana di Maratona

Fu Ipparco la rovina di Ippia, erede di Pisistrato sul tirannico soglio ateniese: il giovane, infatti, mise gli occhi su Armodio, bel ragazzo amante dell'aristocratico Aristogitone (non dimentichiamo che a quel tempo, per i greci, uomo o donna pari erano). A questo punto la passione d'amore si mescola con la politica: da un lato Ipparco, rifiutato da Armodio, accusò la sorella di quest'ultimo di non essere vergine, escludendola dalle feste Panatenee, dall'altra Aristogitone e Armodio decisero di vendicarsi di Ipparco progettando un attentato ai danni non solo di quest'ultimo, ma anche del fratello tiranno Ippia. Il giorno stabilito per l'attentato, però, l'unico a morire, purtroppo per la città, fu Ipparco.
Lo scampato pericolo fece al tempo stesso impaurire e arrabbiare Ippia, che iniziò a usare metodi dispotici e tirannici, nel senso moderno del termine: così la città, quando non ne poté più di Ippia, si ribellò, costringendo il figlio superstite di Pisistrato in fuga, mentre in patria il potere venne messo nelle mani di Clistene, capo della rivolta, che però riuscì ad esercitarlo solo dopo quattro anni dalla cacciata del tiranno, a causa dei giochi di potere di Isagora, che aveva contribuito con Clistene alla cacciata del tiranno.
D'altra parte Clistene non era poi così diverso da Pisistrato: una volta preso il potere portò, ad esempio, a compimento la riforma agraria iniziata dal primo tiranno democratico di Atene. La novità più importante che introdusse, però, fu l'ostracismo: con questo meccanismo un qualunque cittadino accusato di essere pericoloso per lo stato poteva essere mandato in esilio, a patto di ricevere 3000 voti contrari. E il primo a venire ostracizzato fu proprio Clistene: l'irriconoscenza dei suoi concittadini deve probabilmente essere spiegata con il non voler rischiare un nuovo concentramento di poteri su un unica persona.
Entrano in scena i persiani
Nel frattempo Ippia, scacciato dalla sua città, pensando esclusivamente alla vendetta, si era andato a rifugiare alla corte di Dario. Il re persiano era interessato ad allargare i confini del proprio regno, ispirato dall'unico pensiero che un impero in pace e tranquillo è un impero che allarga i propri confini ai vicini. In effetti la Persia si stava avvicinando alla Grecia, dopo le conquiste della Lidia e di Mileto. I ribelli di queste due città, rappresentate da Aristagora, cercarono aiuto presso Sparta, che, come al solito fedele al suo autarchico isolazionismo, negò qualsiasi contributo militare, mentre Atene, con grande gioia di Ippia, accettò e mosse guerra contro l'invasore.
L'ex-tiranno ateniese, in effetti, fin da quando era giunto alla corte di Dario, aveva cercato di convincere il sovrano persiano a muovere guerra contro la sua città natale. Scoppia così la prima guerra persiana.

martedì 10 agosto 2010

Una dittatura democratica

Per comprendere meglio la sfida tra greci e persiani che sta alla base della famosa battaglia delle Termopili, avvenuta nell'agosto del 480 a.C., è necessario andare un po' indietro nel tempo, a molto prima della prima battaglia. In particolare all'era di Pisistrato.
I primi passi della democrazia
Solone aveva da poco introdotto in Atene la democrazia, la cui struttura era poi destinata a diffondersi quasi in tutta la Grecia (tra le escluse, ovviamente Sparta, che aveva un'organizzazione tutta sua). I partiti, se così possiamo definirli, presenti a quel tempo erano tre, così suddivisi in Storia dei greci di Indro Montanelli: la Pianura, ovvero gli aristocratici, i latifondisti, i ricchi proprietari terrieri; la Costa, ovvero media e grande borghesia, commercianti, armatori; la Montagna, ovvero contadini e lavoratori urbani, qualcosa di più dell'attuale proletariato, visto che non tutti gli appartenenti alle fasce basse della popolazione ateniese erano cittadini della polis. Anzi erano generalmente la minoranza della popolazione urbana ad avere il diritto di partecipare alla democrazia, anche se era probabilmente più democratica di quella che abbiamo oggi.
Comunque un giorno Pisistrato si presentò alla popolazione ferito chiedendo una scorta armata a causa di un presunto attentato. Solone, comprendendo i pericoli di tale richiesta, si oppose, forte della legge cittadina che impediva la formazione di una qualunque forza di polizia o militare stabile, ma nulla poté e così, alla fine, commentò l'esito della vicenda, più o meno, in questi termini:
Siete sempre i soliti: ognuno di voi, individualmente, agisce con la furberia di una volpe. Ma collettivamente siete un branco d'oche.
Probabilmente questa frase dovremmo tenerla bene a mente, la prossima volta che commenteremo i risulati elettorali...

sabato 7 agosto 2010

I grilli atomici

Inizia con Topolino e Pippo che vendono un prodotto per bolle di sapone la storia I grilli atomici di Guido Martina e Angelo Bioletto.
Serializzata sui numeri di Topolino libretto che vanno dal 13 dell'aprile 1950 al 16 del luglio dello stesso anno, segue L'inferno di Topolino, degli stessi autori, ma a differenza di questa, che è una parodia dell'omonimo primo libro della Divina Commedia di Dante Alighieri, si concentra sulla scienza, almeno così come è concepita dal Professore, come è soprannominato il tuttologo e tuttofare Guido Martina.
In effetti sia il testo di Martina sia l'ambientazione utilizzata da Bioletto si rifanno più alle storie ingenue e leggere degli esordi che non a quelle più mature dello stesso periodo, quelle di Bill Walsh e Floyd Gottfredson, che comunque restano ricche di quell'elemento fantastico che è sempre e comunque un buon veicolo per la divulgazione. Visto l'inizio, comunque, avrei potuto parlare delle bolle di sapone, quelle che Pippo rinforza con il cemento per farle durare di più, ottenendo le belle sfere che vedete nell'immagine di apertura, ma causando poi i primi guai dell'avventura. Però delle bolle ne ha già parlato, e anche bene, Emanuela giusto un paio di settimane fa (giorno più, giorno meno). E allora la seconda opzione, la sonoluminescenza, che con le bolle ha pure un collegamento, senza contare che la versione originale dell'articolo è stata scritta dal sottoscritto come appendice a un compitino assegnatomi nel dottorato: questa però è un'altra storia e magari la approfondiamo in altra occasione. E così restano i grilli atomici, quelli del titolo, che vengono ingigantiti all'interno del laboratorio dei Sette Nani, che ricorda più un laboratorio alchemico o chimico piuttosto che uno fisico.